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da uno a cinque

di conte e scempi

Ci sono mattine nel Mediterraneo che da sole giustificano una vita, mattine di fronte alle quali tutto potrebbe finire lì, compiuto in se stesso. Mattine di panorami limpidi, di aria fresca e appena salmastra, di cielo azzurro. Mattine che ti vengono incontro mentre tu le respiri chiudendo alle spalle una porta e ti ritrovi lì, davanti alla purezza disarmante del sole appena sorto, che ancora non ha fatto in tempo a sporcarsi con le storie degli uomini; quello sarà il sole che vedrai solo alla fine, al tramonto. Mattine di fronte alle quali potresti chiudere veramente la porta dietro di te, perché è tutto compiuto nella loro luce. Ecco, oggi è proprio una di queste mattine.

Ieri sera alla trattoria da Adelaide me la sono goduta alla grande con i suoi tagliolini al nero di seppia, il sanpietro al forno, il suo tokai fresco, quei due biscotti con il vino dolce, le gocce di freddo sul bicchiere, il cigolio della sedia di paglia nella prima sera. Ma è stato l'odore dei glicini della pergola nel crepuscolo, quello ha colpito basso; è riuscito a quietare il mio cuore, l'ansia della guerra, degli attentati, delle rappresaglie, tutto si è diradato in quell'odore che scendeva morbido e avvolgente. Altro che le droghe di Milan, a volte basta solo il profumo dei fiori e riesci a perderti nella loro serenità. A volte basta una sensazione come questa per darti il senso del presente, a trarti in salvo dall'ansia e dai timori del futuro. Le pattuglie, il coprifuoco, le raffiche di mitragliatore nella notte, l’incertezza, le notizie alla radio che cozzano contro quelle che arrivano dalla terraferma. Le formazioni di aerei che vanno a caccia di nemici, e non ha importanza chi siano di volta in volta, sono sempre seguite dalle esplosioni lontanissime o vicine a seconda del vento che spira.

Qui non è caduta nemmeno una bomba, nemmeno per sbaglio. Qui non c'è nulla da sgominare se non qualche barca di pescatori, lo stabilimento di inscatolamento del pesce, quattro case sul porto e altre quattro a mezza costa. Nulla che valga nemmeno i soldi di una granata; appena un presidio, una decina di soldati che raramente si vedono in giro. Qui basta la loro bandiera rossa e nera che garrisce sul pennone del municipio. È lei che ricorda a ciascuno che le cose sono cambiate, che un futuro raggiante e vittorioso ci attende. E che se sono arrivati con i carri corazzati, con il tritolo e i mitragliatori, è solo per portarci tutta la felicità che a loro avanza. E che se talvolta capita che siano costretti a fucilare qualcuno di noi, è solo perché noi non abbiamo capito quanto sia felice la loro felicità.

Qui non c'è nulla di strategico a parte la trattoria di Adelaide naturalmente, luogo chiave della più intima e terrena felicità; è lei che pensa e provvede a tutto solo per la gioia di ogni avventore, dalla tavola al dopo. Basta un'occhiata discreta, perché non è un segreto, qui nulla può essere un segreto, piuttosto è riservatezza. È sufficiente quel cenno d'intesa, per avere pronta una delle due camere al primo piano, completa di asciugamano, mezza saponetta e di una ragazza sorridente e disponibile. Le trova chissà dove spargendo la voce e raccogliendo notizie: c'è chi è stata abbandonata dal fidanzato, chi lo ha perso al fronte, l'orfana, la pigra, la svelta. C'è di tutto tra queste isole e la terraferma, basta saper cercare tra pini marittimi, cicale e sassi. E sopratutto saper convincere, ma per questo c'è la fame e l'incertezza. Restano qualche mese e poi se ne vanno, tornano alla loro vita lasciando il posto ad un'altra.

Ieri era la sera perfetta e l'intesa è stata raccolta. Dopo il caffè lungo me ne sono andato di sopra dove c'è quella bambina di San Demetrio del Paludo, o così mi ha detto, quella con i capelli neri e gli occhi ebrei, la pelle chiara e il seno piccolo. Insomma, inutile continuare, è stata davvero una notte unica anche se sapevo benissimo che sarebbe finita all'alba. Ma sono fatto così, la felicità me la godo anche sapendo quanto possa essere effimera, che insomma non durerà mai quanto vorrei, soprattutto con i tempi che corrono. D'altro canto perché dovrei rinunciare a una felicità per il solo fatto che è a termine? Non so nemmeno il vero nome di quella bambina: due volte l'ho conosciuta e due nomi diversi mi ha dato, l'importante è che le piaccia come la chiamo io. Ma con lei non fai certo caso al suo nome: l'unica cosa che conta è che sia riuscita a regalarmi una notte delicata e indimenticabile, fino alla prossima. Se ora sto attento sento ancora il suo profumo di agrumi e cannella sotto quello del mio dopobarba.

Ci sono mattine... ecco, oggi è proprio una di quelle mattine. La camicia pulita e inamidata, i pantaloni grigi stirati e una sensazione di soddisfazione e completezza illuminata da questo sole fresco, anche questa per me è la felicità e non è mai troppa, almeno non troppa da doverla portare ad altri; ora sì che posso andarmene al lavoro, nel naso il suo profumo, in bocca il sapore del caffè e il tabacco della prima sigaretta. Manca poco e girerò l'angolo della chiesa; eppure oggi c'è qualcosa di strano, di nuovo, qualcosa che non va: manca il vociare del mattino; nessuno, nessuno in giro e un odore acido di paura e ordini, impartiti in quella lingua straniera buona solo per la guerra e i cani. Cosa succede ora? il mio istinto mi dice che è meglio entrare nella bottega di Claudio, il vecchio calzolaio. Ma è vuota, piena solo del sentore di cuoio e colla calda; sicuramente sarà in piazza a prendere il suo caffè. Faccio appena in tempo a girarmi per vedere i due militari neri e le canne buie dei loro fucili, non parlano, mi strattonano fuori. Ma cosa succede, cosa ho fatto. Adelaide forse? Pelle bianca di cannella? Non mi chiedono nulla, nemmeno i documenti. Ma perché. Mi spingono oltre l’angolo, verso la piazza della chiesa. Anfibi, chiodati, canne del fucile, cielo azzurro. Il sole inizia a sporcarsi di storie di uomini.

Appena il tempo di girare l'angolo e sono al muro. Siamo al muro, siamo meno di una quarantina di persone, tutti uomini, praticamente tutti gli uomini del paese. Tre donne sono nell’angolo, nell’ombra, sotto il sicomoro: piangono. Ma cosa abbiamo fatto, cosa succede ora. Quaranta persone al muro e nel sole, una decina di militari neri di fronte, nell'ombra. Un ufficiale inizia a leggere, pronuncia male la nostra lingua morbida, la esse scivolosa si trasforma in un sibilo. Il silenzio è totale, lui parla senza gridare, mi arrivano solo alcune parole «...vile attentato... nostra guarnigione... compagni caduti eroicamente... esemplare punizione. Rappresaglia...». Rappresaglia, ma perché, cosa è successo, io ero con lei, non c'entro nulla. È un attimo, le orecchie mi fischiano, qualcuno mi pensa, è la tensione certo, perché qui, ora, ciascuno pensa a se stesso e non si muove una foglia. Nessuno pensa veramente. La paura, quella vera, è grigia, silenziosa e non fa pensare piano. Affastella tutto assieme e fa tremare; proprio come la mia adesso. Qui l'unico rumore è il brecciolino sotto la suola delle scarpe. Qui in piedi, le spalle al muro, la faccia al sole e la schiena sudata.

Inizia la conta macabra. Non può finire tutto qui e soprattutto non può finire così in questa maniera stupida, stasera devo festeggiare una giornata fortunata e invece finisce tutto qui, sbattuto contro questo muro in attesa della quinta, perché siamo talmente pochi in paese che non saremmo abbastanza per una decima. Sono tra gli ultimi. L'ufficiale inizia a contare: «uno, due, tre, quattro» non pronuncia il cinque, fa uscire il sagrestano dalla file, un passo avanti. Lui si guarda attorno spaurito, non ha capito? non vuole capire? Trema. Divisa nera ricomincia «uno, due, tre, quattro», ora tocca a Claudio il calzolaio che da solo fa un passo avanti; lui ha capito. Trema. Stavolta conto io, rapido con la coda dell'occhio, uno, due, tre, quattro... riconto ancora, non mi sono sbagliato, sono l'ultimo numero uno, oggi è davvero una mattina meravigliosa.

Allora oggi è veramente un giorno da festeggiare, iniziato bene con il profumo di cannella e la camicia stirata. Allora è tutto un equivoco, questo è solo un inconveniente, un momento difficile da superare, con tutta la paura da levarsi di dosso; e poi stasera mi meriterò un'altra cena da Adelaide e chissà, magari un'altra notte profumata di glicini con pelle d'agrume. Sì, certe mattine vanno festeggiate, sia pure alla sera. Da ragazzini le conte le facevamo per giocare a nascondino, oppure per decidere chi doveva stare in porta, o ancora per il calcio di inizio. Ma ora siamo grandi e le conte le facciamo per chi vive e chi no: ogni età ha i suoi giochi; comunque, a qualsiasi età, nelle conte non si deve mai barare. Devo avere pazienza, devo aspettare e smettere di sudare, devo aspettare per andarmene. Ancora pochi minuti, devo resistere all'impazienza. Chissà dove li porteranno: dietro al chiesa? no, al fienile, sì, al fienile, davanti al porto. Poi gli spari spezzeranno per qualche istante la brezza marina e sarà tutto finito lì, ma io non ci sarò, non ci sarò ancora per fortuna. Stavolta toccherà a quello alla mia destra, per lui non è certo la mattina meravigliosa che è per me, per lui sarà l'ultima. E se ieri sera non è stato da Adelaide, peggio per lui, se non ha fatto quel gesto di intesa segreta per poter salire al primo piano, non con seno piccolo naturalmente, lei è mia, ma con la sua amica, se non lo ha fatto allora davvero peggio per lui. Di questi tempi il destino devi anticiparlo, grattare ogni improbabile istante di piacere, perché dietro l'angolo della chiesa potrebbe esserci, potrebbe celarsi. Questo scempio.

Io l'ho anticipato e me la sono goduta e me la godrò finché potrò, se lui non ha capito come vanno le cose di questi tempi, non è certo un problema mio, solo peggio per lui. Ognuno fa il suo per salvarsi la pelle e ogni possibile felicità. Non ho nemmeno visto chi è, ho solo contato e lui è cinque, io uno. Questa è l'unica cosa importante: oggi tocca a lui mentre io sono fuori da questa schifosa conta degli adulti. Ma devo stare attento a non guardarlo, non devo riconoscerlo, non devo incrociare il suo sguardo. Lui è già su un'altra strada che nemmeno voglio sapere, io stasera andrò alla trattoria e poi da pelle calda. Un refolo di vento corre lungo il muro alle nostre spalle, la mia schiena si gela per un istante. Lui è accanto a me, sento che trema, non ci tocchiamo ma lo sento, percepisco la sua paura come ho sentito l'odore prima della chiesa. Resisto, mi impegno, cerco di resistere, non voglio, non vorrei sapere chi è, non voglio guardarlo. Mi basta la sua paura per averne orrore. Lui è già morto e io ancora vivo. Avrà fatto come me? avrà contato? lo sa di essere cinque e io uno? o forse ha solo paura, perché già essere qui basta e avanza per averne.

Giro lo sguardo a destra, vedo una testa lontana, accanto a me non c'è nessuno. Nessuno? mi sono sbagliato, sono io il numero cinque allora. Allora crolla un'altra volta il mio castello, niente Adelaide, niente capelli neri, niente di niente, buio e basta. Ero uno e ora sono cinque, era una mattina felice e ora non è più niente; non vale, non può essere. Tutto sfuma tra un uno e un cinque; e divisa nera continua a contare, si avvicina ancora, sei uomini sono fuori dalla fila. Chino la testa, non dovevo farlo, lo vedo. Avrà forse undici anni, è Giorgio il figlio di Pietro, quello che lavora all'inscatolamento del pesce. Ma perché è uscito così presto stamattina? la scuola è chiusa, avrebbe dovuto rimanere a casa, non sono tempi per i bambini. Loro contano per il pallone. Allora è lui l’ultimo cinque, io sono nuovamente uno; tutto torna come prima: Adelaide, capelli neri e il profumo dei glicini. La mattina meravigliosa, il cielo azzurro del Mediterraneo, le cicale appena fuori dal paese. Tutto al suo posto, anche io. Lui no, ma non ci posso fare nulla perché nelle conte non si può barare.

Lo sapevo che non dovevo girarmi, ora chi lo dirà a pelle bianca e profumata? La mia mano destra lo prende sulla spalla, lo tiro verso di me, al mio posto. Non dovrei farlo, perché nelle conte non si deve mai barare.

da_uno_a_cinque.cont 12.0 Kb rev. 2024.12.19 18:02:32