la prima volta
oltre la soglia
Lo raccontano ancora ai margini della statale 219 bis; lo sussurrano con un filo di voce nascosta dal maestrale che soffia teso spazzando la costa ovest della Sardegna arrivando a far rotolare le cartacce ai margini dell'asfalto. In inverno invece sono i camini ad ascoltare questa storia che si tramanda di bocca in bocca con un sorriso, i ciocchi di sughera che schioccano nervosi sulla brace viva, unica luce delle pietre antiche dei muri. Una storia che è quasi leggenda, o forse non è mai stata, o forse lo è tutt'ora -come direbbe Borore affaccendato nella tanca- ma tra noi possiamo ammetterlo: ha una vera importanza che un fatto sia realmente avvenuto o invece sia una memoria assemblata nel tempo? Perché la nostra memoria è fatta di impronte; i piedi che le lasciarono non li rammentiamo più.
Parliamo di anni fa -pochi o molti non ha mai importanza nelle leggende- lungo una serata pigra nell'aria tiepida indecisa tra l'afa del giorno e la brezza mediterranea della prima notte, raccolti sotto la protezione benevola di Nostra Reina de Regnos Altos. Una serata che si consumava spizzicando pane carasau e salumi dal sapore forte e rude, formaggi dall'immancabile afrore ovino stemperato dai bicchieri di malvasia traditrice. L'ultimo boccone di papassìnos era ormai storia sulla lingua di tutti e il silenzio dopo l'impegno gastronomico aveva tolto a ciascuno velleità di parole; ci voleva tempo, ancora un po' di tempo, e ogni parola sarebbe tornata a galla, poco alla volta, come le alghe che affiorano un ciuffo alla volta. In quell'intervallo, quella terra di nessuno della convivialità , nel buio sardo illuminato dalla Via Lattea nel cielo e da due candele pigre sul tavolo, qualcuno accese una sigaretta, ma senza fretta, calibrando i gesti, ponderando con cura l'impegno necessario a far scorrere la testa di fosforo sul lato vetrato della scatolina di cartone. La fiammata iniziale ridiede un senso ai volti raccolti attorno alla tavola, poi tutto tornò a sfumarsi nella notte del giorno e dei pensieri.
Qualche filo di fumo si alzava lentamente perdendosi nel nero poco più in alto; le pietre del pavimento rilasciavano ancora il calore accumulato senza fatica durante la giornata. L'aria ancora densa -sebbene fresca- disperdeva gli intenti, rallentava i gesti e spegneva la volontà delle parole: tutte queste assenze lasciavano spazio devoto a gesti rituali svolti da mano esperta; una cartina corta distesa tra indice e pollice, una seconda cartina, un rettangolo di cartone rubato alla confezione Rizla piegato prima a soffietto e poi rigirato. Alcuni dicono una Camel stropicciata, altri parlano di una Merit dal corpo rigido: in ogni caso quella sigaretta iniziò a correre sulla punta della lingua, liberando il tabacco entro un rettangolo della tovaglia. Poi una pausa per frugare nel taschino e far comparire per magia un grumo di carta stagnola. Le stesse dita esperte la aprirono lasciando apparire una pallina scura e resinosa che diffuse subito un sapore antico e rassicurante, incenso pagà no.
La fiamma del Bic blu prese vita e iniziò a regalarla a quel nulla di serenità ludica che prima si gonfiò e ancora si ammorbidì tanto da poterla sbriciolare assieme al tabacco. Gesti antichi ed esperti, dita che ballavano un tango silenzioso sul palmo della mano, gesti rapidi senza esitazioni crearono. Come da tradizione la canna fu passata al commensale accanto che la accese e aspirò con rispetto, trattenne un'istante in più del necessario e fece proseguire il giro, nel silenzio. Perché certi gesti prendono il posto delle parole rendendole superflue. Nel silenzio la canna girava di bocca in bocca, lentamente, con il giusto tempo per ciascuno che diveniva il giusto tempo di tutti. L'ultima mano nel buio la offrì a lei, perché così vuole la liturgia; lei la prese e iniziò ad aspirare. La brace che fino ad allora ogni boccata aveva mantenuto al minimo, si infervorò passando dall'arancione scuro al bianco. Gli animi si risvegliarono dal torpore meditativo e un coro allarmato di «piano... devi tira' piano... mica è 'na sigaretta...» ruppe l'equilibrio ancestrale.
Lei si riprese composta trattenendo la boccata a lungo, così come aveva visto fare agli altri prima di lei. Per smorzare le occhiate severe che si trascinavano pensò bene di esporre alcune considerazioni: «tanto a me non fa nulla, ne sono certa... figurati cosa può farmi... sì, un buon sapore ma ecco... tutto qui...» Gli anziani del rito la guardavano di sottecchi divertiti, loro aspettavano, sapevano e aspettavano; perché l'evidenza non ha bisogno di parole, anzi risulta scontornata dal silenzio della consapevolezza. Lei continuava a considerare l'assenza di un qualsiasi, anche pallido, effetto. E continuava con l'insistenza metodica di chi -inconsapevole- inizia ad elaborare le prime potenti molecole di genuino THC dei boschi del Goceano. Lei considerava, parlava sempre più fitta e a voce sempre più sommessa; e gli altri guardavano e attendevano; non erano certi, piuttosto erano in attesa dell'ineluttabile, un po' come all'aurora: non si è certi del sorgere del sole, piuttosto si attende che sorga, che si compia quanto è naturale sia a compiersi.
Lei ormai parlava da sola, continuamente, in un flusso convinto finché, spazientita da ciò che non accadeva, decise di andare a coricarsi. Ringraziò composta tutti quanti e fece per alzarsi: fu lì che sorse il sole, ripiombò seduta e incredula, perplessa. Le gambe non volevano reggere ma uno sforzo sovrumano la portò sin dentro casa dove la figlia la accompagnò in camera. Nessuno parlava, c'era bisogno di parole all'alba? per cosa poi? per sottolineare l'evidenza? La sua voce continuava a parlare senza pause e sempre più persa tra le mura della casa, o forse dentro sé stessa in un lungo auto monologo. Alla fine si ripristinò l'equilibrio tra un fuori sommesso e un dentro denso di parole. Tutto si livellò nella notte e il silenzio riprese paziente il sopravvento. La canna -la stessa? chissà ... e che importanza poteva avere poi?- aveva finito il suo giro. Le ultime parole di lei si quietarono e una mano ripose rispettosa nel portacenere il filtro di cartone con l'ultima brace. Perché la liturgia vuole che una canna non si spenga come una sigaretta, deve finire il suo ciclo; così fu, così è, così sarà nei secoli dei secoli.
La risata squarciò la notte, immotivata, inattesa, sorpresa lei stessa di sé. E continuò a ridere e a perdersi nella sua stessa risata; a volte sembrava spegnersi per poi riprendere vigore e nuova ragione da chissà quale percorso mentale. Mozziconi di parole che tentavano di impostare una frase e invece franavano nel singhiozzo della risata. E allora da lì un nuovo motivo di ridere, per ridere della frase che era slittata nel riso. Un percorso circolare di causa-effetto nel quale ciascun elemento era sé stesso e il suo antagonista, la sua conseguenza, il suo predecessore; tutto senza darsi pena di ricercare una minima logica. Un riso libero e immotivato. Finalmente liberatorio.
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