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volksgrenadier

profumi, voci, immagini, suoni, silenzi

Quella mattina, come tutte le mattine a scuola, l'aula aveva il profumo del legno usato con sentori vaghi di polvere, come quando il legno è stato tagliato, lavorato e subito utilizzato, con poca o nessuna stagionatura; quando le linfe e le resine continuano a trasudare rilasciando il loro profumo vegetale. E i banchi erano nuovi, un regalo del nuovo stato, l'unico e invincibile. Quel profumo si mischiava con qualcosa di difficilmente identificabile: decine di mani di bambini avevano toccato quel legno con le loro mani sudice di polvere e miele. Ne risultava proprio quello strano odore che si poteva quasi vedere nelle venature nerastre lasciate da dita vivaci. A tutto questo si aggiungeva lieve un sentore di polvere dai muri e dalle travi del solaio. Ma lui tutto questo non lo notava nemmeno perché era la sua realtà quotidiana e a ciò che è normale, bello o brutto che sia, non ci si fa caso. Riusciamo a notare il nuovo, l'anomalo, lo strano; e quando l'eccezionale si rivela allora l'attenzione è pronta a cogliere ogni sensazione. Lui aveva in testa solo Marianne, due banchi davanti, le sue trecce incorniciavano una nuca delicata che lui sì avrebbe protetto per tutta la vita. Le sue spalle erano solide sotto la camicia bianca ricamata e le maniche larghe; la sua schiena era fasciata da un gilet azzurro con le spalline larghe.

Conosceva ogni dettaglio del viso di Marianne, la guardava di nascosto, talvolta si scopriva a spiarla: il suo volto regolare, gli occhi scuri, vivi e brillanti, le sue labbra dovevano essere morbide come la panna e il suo profumo era un misto di fieno fresco e genziana. Lui la spiava ogni mattina, durante la lezione, cercando di non farsi notare dal maestro e soprattutto da quel volto severo appeso al muro sopra la cattedra. Era incorniciato nel nero, gli occhi vivi e attenti su un punto lontano, i capelli perfetti, le guance rasate con i baffi appena sotto le narici, il collo dritto e pronto, raccolto da una camicia bruna. Quel volto aveva realizzato tutto, ricostruito, sviluppato, unificato due nazioni in un'unica cultura, sotto un solo simbolo. Sapeva tutto e vedeva tutto, anche lui! quando di sottecchi accarezzava la nuca di Marianne. Lui l'amava, forse non aveva nemmeno capito il senso di quella parola ma i grandi la usavano proprio quando il cuore era felice e pieno. Lui l'amava e lei forse nemmeno lo sapeva.

La voce del maestro era ferma come sempre, stava spiegando le divisioni a due cifre. Ogni tanto si fermava e quell'attimo di silenzio gelava il sangue a tutti perché precedeva un rimprovero: lui lo sapeva benissimo perché era distratto ancora una volta dal profilo di Marianne. Quel silenzio era temuto da tutta la classe, ognuno aveva qualcosa per cui essere rimproverato, ma stavolta non era in arrivo nessuna bacchettata con il rametto di salice sottile ed elastico, che in quell'istante di silenzio sibilava prima di schioccare sul legno o peggio sulle dita. Stavolta era un silenzio diverso; il maestro drizzò la schiena quando nel corridoio iniziò a crescere un vociare secco, molto più duro dei suoi rimproveri. Quelle parole lontane erano cadenzate da passi schiacciati sul pavimento in piastrelle di cotto; una lingua ben più dura del dialetto morbido che usavano parlare in zona, una lingua uguale e diversa, più simile a quella del rametto di salice. Se avessero potuto parlare gli alunni sarebbero stati d'accordo nel riconoscere la voce del direttore, profonda e ampia come la sua pancia che i più coraggiosi chiamavano da birra. Il tono era ubbidiente, strano per il direttore, forse anche con un po' di sussiego. L'altra voce era quella del rametto di salice; era comprensibile, si capiva perfettamente, stesse parole, la costruzione della frase era uguale. Ma aveva un qualcosa di straniero, chiudeva ogni frase improvvisamente o aumentando il tono. Dava un senso di disagio, incuteva timore, era fatta proprio per questo. La porta dell'aula era a due ante, ciascuna con un vetro giallastro e goffrato; non si poteva vedere oltre ma in quella mattina il maestro capì quando la sagoma tonda del direttore fu affiancata da altre due: la prima alta e impettita, la seconda massiccia e piantata. Per un attimo l'aula sembrò odorare di lubrificante per armi, ma poi tornò, o forse non se ne era mai andato, l'odore del legno. Dopo tutto questo, di cui non si accorse, lui era tornato con lo sguardo sulla nuca di Marianne mentre una voce nel suo cuore ripeteva "è il tuo amore".

"Se siete qui -pausa- è perché abbiamo visto in voi il potenziale della nostra grande razza -altra pausa- affinché possiate contribuire al raggiungimento del risultato finale che sancirà la grandezza della nostra patria finalmente unificata." La voce era dritta su un palco di legno, dietro di lei il simbolo della vittoria era impresso su lunghe bandiere rosse e nere che scendevano dall'alto anziché garrire al vento. La voce era ferma, scandiva ogni singola parola e non aveva bisogno di altoparlanti e amplificazione ma lui non era lo stesso che aveva chiamato i prescelti nell'aula della scuola, non aveva la divisa bruna né quelle medaglie che avevano destato l'ammirazione degli alunni. La voce aveva stivali neri e lucidi, alti fino a sotto il ginocchio, i pantaloni erano anch'essi neri infilati negli stivali. La giacca ancora nera era stretta in vita da un cinturone alto con la fondina, la fibbia lucida mostrava un teschio, sul petto non c'era nemmeno un distintivo, aveva un collo stretto e alto e sotto il mento, lì dove iniziava la fila dei bottoni, mostrava due fulmini argentati bordati si rosso. Il volto asciutto e scavato conteneva due occhi infossati e attenti. Tutto sembrava essere la cornice immobile della guancia sinistra dove la profonda cicatrice della mensur correva bianca e lineare dall'angolo della bocca fin dietro lo zigomo. La voce continuava a parlare stentorea, secca, ma nessuno dei ragazzi sembrava ascoltare veramente: tutti erano in bilico tra il timore e la partecipazione esaltata. La voce lo sapeva benissimo e stava cercando dove posare quel grammo in più che avrebbe fatto la differenza. Essere stati scelti per entrare nelle truppe della gioventù era già motivo di onore e orgoglio ma qualcuno non riusciva a liberarsi da quel timore. E lui proprio non riusciva a togliersi di mente lo sguardo che gli aveva lanciato Marianne quando uscirono dall'aula: dopo quelle giornate nuove ed emozionanti non lo dimenticava perché era un misto di dispiacere e disprezzo, amore, incredulità, con un ultimo sguardo di addio. Lui non riusciva a scomporre quello sguardo così precisamente, sentiva solo la sua nostalgia come un groppo appena sopra il cuore e sotto la gola.

Quelli che seguirono furono giorni pesanti di addestramento: corsa, zaini, armi di ogni tipo. A lui, che aveva una corporatura robusta e solida, fu affidato un lanciafiamme. Iniziava ad essere orgoglioso di quel nuovo mondo, veniva da un paese di campagna dove la vita scorreva tranquilla con le stagioni, dopo la scuola poteva esplorare i boschi circostanti e li conosceva benissimo; le forre, le grotte, ogni anfratto possibile lo aveva visitato. Era anche esperto di armi, le sue fionde erano le migliori della vallata. Sapeva quale legno scegliere e dove trovarlo, aveva recuperato un pezzo di cuoio scuro dove ritagliava le sacche, poteva recuperare i quadrelli, gli elastici neri per la spinta. Sapeva costruire anche cerbottane ma non gli piacevano molto, preferiva le fionde. Una mattina era stato chiamato in armeria dove passò tre ore ad ascoltare attento le istruzioni di quell'arma finalmente vera che avrebbe maneggiato. Nel pomeriggio di quella giornata decisiva, sapeva tutto sul Flammenwerfer 41, un po' pesante sulle sue spalle ma meraviglioso nella sua potenza distruttiva, l'odore di benzina e catrame che emanava era l'odore della vittoria. Con quello strumento avrebbe aperto brecce incolmabili nelle file nemiche. Finalmente poteva contribuire alla vittoria dello stato le cui truppe avanzavano invincibili su ogni fronte. Le notizie arrivavano dai cinegiornali che venivano proiettati tutti i pomeriggi prima di cena, dopo gli addestramenti. Giorno dopo giorno sentiva un'energia nuova dentro di lui, una forza sconosciuta e potente lo stava invadendo. Era sicuramente lo spirito sacro dei berserkir che lo stava pervadendo.

Mesi prima, ormai non sapeva quanti, non riusciva più a contare i giorni, lo zio di un suo amico era ricomparso. Per tutti era un eroe della nazione e lui se lo era immaginato ben diverso da quell'ombra diafana e impolverata che camminava a stento verso il paese. La divisa logora, un berretto scomposto, disarmato, solo la custodia della maschera antigas pendeva inutile dallo zaino. Nei giorni successivi quell'ombra riprese un po' di spessore ma non sembrava certo un berserk; l'ombra aveva una voce vuota e parlava poco, quel poco raccontava falsità che nulla avevano a che vedere con la verità gloriosa. Descriveva I carri armati con la stella rossa, i loro cingoli sporchi di sangue e brandelli di carne che avanzavano. Parlava di manciate di pasticche ingoiate prima degli inutili assalti.

Il rumore del treno è un suono che diventa tale solo dopo molte ore di viaggio. Prima sei ancora troppo vigile e riesci a cogliere l'origine di ciascuna delle mille vibrazioni del vagone, dal binario fino alla rete portabagagli. Tutto questo gli faceva tornare in mente i concerti di natale della banda cittadina: prima ogni strumento indipendentemente cercava l'accordatura, l'armonia; poi, non potevi sapere quando ma accadeva sempre, la trovavano tutti assieme nello stesso istante e tutti quei fili musicali, dodecafonici e sciolti si riunivano in una solida fune prima dell'attimo di silenzio, dei tre colpi di bacchetta del direttore della banda, dell'inizio del brano. Dopo tre giorni e quasi tre notti sulla tradotta militare, lui era entrato in uno stato quasi di meditazione, cullato dai suoni che erano divenuti un tutt'uno ritmico e ripetitivo di metallo e legno con qualche soffio lontano della locomotiva; l'assolo del fischio anticipava una stazione sempre più desolata; anche il paesaggio scorreva lento come se il treno fosse stato fermo e una scenografia mobile, vivida e mutevole fosse la realtà. Dai colori vivaci era passata piano piano ai toni del pastello fino al grigio e bianco del fronte orientale innevato. E lo stesso era accaduto ai suoni, non quelli del treno ma quelli delle campagne e dei rari centri abitati. Tutto era ormai pervaso da un silenzio inquietante mentre le artiglierie arrivavano a farsi sentire attutite dalla pesantezza dell'aria. L'alba si intuiva nel nero che iniziava a sfumarsi e nei rumori del vagone di chi si svegliava, chi andava in bagno, lo sfregare della testa del fiammifero su un ruvido per accendere la prima sigaretta del giorno.

Il treno iniziò a cigolare e le ruote a stridere sui binari per un tempo lunghissimo finché la realtà si fermò in un'inquadratura fissa per ogni scompartimento. A lui capitò l'istantanea di un gruppo di donne e bambini, forse sei o sette, spinto dai calci dei fucili di due soldati. Una delle donne si girò per caso e i loro sguardi si incontrarono e gli stavano urlando silenziosamente odio e disperazione; lui ritrovò in quegli occhi sconosciuti e senza amore lo sguardo di Marianne ed ebbe una scossa al cuore pensando a entrambe. Dopo una mezz'ora intuita, si ritrovò con tutti gli altri su un piazzale dove pochi ordini secchi erano bastati ad inquadrarli. Di fronte a loro alcuni camion li aspettavano con le ribalte abbassate e i teli chiusi; sembravano bocche pazienti in attesa di inghiottirli, silenziose se non fosse stato per il ronzio dei motori al minimo. Una nuova voce ripeteva che quei mezzi li avrebbero condotti sui luoghi della gloria, dove sarebbe stato possibile dimostrare il valore e la dedizione di ciascuno. Questa volta non ci fu nessuna berserksgangr, solo stanchezza e un senso di vuoto fino alla seconda linea del fronte. L'odore di terra bagnata era ovunque e spesso si mescolava a quello della balistite vicino alle postazioni dei mortai. Lì dentro era un inferno di suoni e rumori che non riuscivano a trovare una sintonia, lui era frastornato da tutto e nemmeno dopo tanti giorni si era abituato. Solo un animalesco istinto di sopravvivenza lo faceva schiacciare a terra quando sentiva il fischio quasi simpatico dei proiettili di obice poco prima dell'esplosione. Terra e fango, schegge e brandelli, lo spostamento d'aria, la vampata di calore soffocante e insopportabile delle cariche incendiarie e poi le urla e il silenzio.

E poi le urla e un corpo, una volta umano, che si contorceva in fiamme bagnato di fosforo mentre lui poteva sentire le esplosioni delle cartucce che quel poveraccio aveva indosso, lo sfrigolio della carne che si consumava nel fuoco e poi quel silenzio ristoratore e salvifico. Lo sentiva e lo capiva, ma lui non sapeva nemmeno cosa volesse dire salvifico.

Seduto su quelle macerie fumava una rara Overstoltz. Ero partiti in tanti dalle scuole delle vallate, tutti del mio ginnasio, vestiti di grigio-verde, le mostrine con la doppia saetta, un Mauser, inquadrati, convinti, ai piedi anfibi neri, belli, biondi, vergini. La gloria nelle loro mani, solo da stringere, da non fare svanire; pervasi, vuoti e pronti ad accogliere la berserksgangr degli antenati. Tutto era svanito nella polvere e nell'odore acre della balistite. Tutto crollato nel nulla: niente più aquile, fiamme, bracieri; solo i segni dell'obice, il fosforo, i getti di benzina gel. Odore dolce e lontano di carne bruciata. Ancora una volta si ritrovava di sentinella al nulla, all'ineluttabile, con le dite troppo vicine alla brace di una sigaretta che non riusciva mai a fumare fino in fondo.

Nella trincea F42 erano tutti pronti, sembrava una giornata di scuola, avevano tra i 12 e i 15 anni ma non avevano le fionde o le cerbottane, erano armati. A vederli da fuori così scomposti eppure in fila, i loro capelli biondi accarezzati dalla brezza, il contrasto tra quei volti lisci, sporchi e le armi che indossavano era nitido e faceva di loro un ibrido osceno tra bambini e automi. La pelle bianca, le loro labbra ciliegia che serravano una sigaretta troppo grande che di notte fumavano al contrario per non essere individuati da tiratori scelti. Lui e il suo FmW 41 erano stati promossi Oberschütze; ormai lo conosceva perfettamente, sapeva attivarlo al momento giusto e con l'intensità ottimale così da dosare al meglio i quasi dodici chili di Flammöl 19 a base di benzina e catrame. Ogni volta che attivava la valvola, l'innesco all'idrogeno generava un dardo di fuoco che arrivava fino a trenta metri davanti a lui. Il sibilo della miscela proiettata era rassicurante, davanti a lui non ci sarebbe stato più nessuno. Erano pronti, le armi pronte, i colpi in canna, le sicure rimosse, attendevano solo una parola dal loro Obergefreiter, il più grande di loro, 15 anni e qualche mese. Passò una buona mezz'ora prima che quella parole risuonasse nella trincea: quello schnell urlato tre volte li fece scattare verso la linea della fanteria nemica, dietro lo avrebbero atteso i T32 verde scuro con la stella rossa pronti a mangiare le gambe. Appena le loro teste spuntavano fuori la campagna bruciata improvvisamente urlava di sibili ed esplosioni ma lui non le sentiva più, era un tutt'uno con FmW 41 che aveva soprannominato Püppchen, aveva imparato a isolarsi dal resto concentrandosi solo sul sibilo del Flammöl espulso. Guardava davanti a sé e appena ai margini del campo visivo. Guardava, individuava, chiamava Püppchen e tutto bruciava. E ancora guardava, individuava, richiamava Püppchen e ancora bruciava fino a che non esauriva la miscela; lo capiva dall'intensità della fiamma e allora doveva tornare indietro perché Püppchen aveva fame. Era il momento più pericoloso, avrebbe esposto i serbatoi al tiro dei cecchini e in quel caso non avrebbe avuto il tempo di accorgersene.

Correva basso con Püppchen sulle spalle che era più leggero ma ancora impegnativo, correva verso al trincea al sicuro, non sentiva nulla, non voleva sentire nulla. Il sibilo lo distrasse per un attimo, lui si fermò ad ascoltarlo e perse il controllo: si ricordò di quel verso strano che aveva udito una volta a mezza costa sulla montagna. Rallentò appena dando il tempo al sibilo di trasformarsi in granata esplodendo venti metri alla sua sinistra. Fu investito dallo spostamento d'aria, dal calore e dalla pioggia trasversale di schegge dello Shrapnel, mentre cadeva a terra ripensò a quel verso strano sulla montagna. Si risvegliò su un letto dell'infermeria con il dolore diffuso dell'ustione lungo la parte sinistra del suo corpo, se stava attento poteva individuare dove erano entrate le schegge. Attorno a sé si muovevano medici, infermiere, barelle con i sopravvissuti e tutto questo brulicare di sofferenza era silenzioso. Nessun rumore lo disturbava, niente richiedeva la sua attenzione. Solo il dolore lo disturbava; per il resto non sentiva nulla e alla fine non era così spiacevole.

Una mattina fredda e umida lo accolse alla stazione di Deutschkreutz, nessun'altro. La stazione era di testa, la ferrovia finiva lì e il treno sarebbe tornato indietro verso Neustadt e poi Vienna e poi non ricordava altro. Il viaggio era trascorso in un silenzio improbabile rotto solamente dal ronzio nell'orecchio destro, quello che rimaneva del suo senso dell'udito. In cambio avrebbe avuto una croce di ferro e una pensione di guerra. Anche sulla banchina del binario 4 regnava il silenzio: il capostazione soffiava nel fischietto e agitava una bandierina rossa. Lui raccolse il suo zaino e si diresse verso l'uscita; nell'atrio appena più caldo, il punto di ristoro della Croce Rossa offriva qualcosa di nero e fumante, poteva essere caffè ma era improbabile. Fuori invece iniziava a cadere qualche fiocco incerto di neve, sotto la pensilina tirò fuori il pacchetto spiegazzato delle Imperium con l'aquila e il simbolo, ne accese una e si diresse a destra verso la chiesa per imboccare la sterrata verso il suo paese, lo aspettavano alcuni chilometri a piedi ma aveva sopportato di peggio negli ultimi mesi. Quando le prime case iniziarono ad apparire nella nebbia, lui si rese conto che si era trasformato nell'ombra diafana che trascinava a stento i piedi e gli anfibi nella neve fresca. Arrivò di fronte alla porta della sua casa, istintivamente guardò in alto, dall'altra parte della strada, verso la finestra di Marianne; gli sembrò di vedere muovere la tenda ma non c'erano i suoi occhi a salutarlo o a rimproverarlo. La sua porta invece si aprì appena e lo accolse il volto di sua madre che stava piangendo senza lacrime, si fece da parte e lui entrò sedendosi vicino al camino acceso con poca legna.

Un camino silenzioso era già strano, la bocca di sua madre che si muoveva con pochi suoni lontani era incredibile, comunque si era ormai abituato a questo nuovo mondo assente. Nei mesi successivi, poco alla volta, prese coscienza che il suo silenzio era finalmente un sollievo, che i pochi suoni dall'orecchio destro erano proprio loro l'elemento di disturbo; la soluzione si realizzò senza che lui in coscienza se ne accorgesse. Aveva deciso di perdere completamente l'udito riuscendo, da quella decisione, a smettere di sentire urla ed esplosioni. L'ultimo suono che gli arrivò fu un sibilo e poi il silenzio. Quella stanza, quella sedia, quel camino, nulla era cambiato a parte la figura femminile. La madre si era spenta mesi prima. Per qualche anno si erano sovrapposte lei e Marianne, che lo aveva sposato ma non perdonato. Lei aveva smesso di parlargli ma lo accudiva con un fastidioso misto di affetto e sopportazione. Così trascorreva i suoi giorni sordi.

Quella mattina Marianne era andata forse a fare la spesa, forse in chiesa, forse da un'altra parte. Lui era sempre lì seduto accanto al camino; sulle sue ginocchia un involto di stoffa unta pesava, lo aprì con calma ma senza esitazione. Seduto su macerie di memoria fumava una Overstoltz. Erano partiti quasi tutti quelli della scuola, vestiti di grigio-verde, le mostrine con la doppia saetta, un Mauser, inquadrati, convinti, ai piedi anfibi neri, belli, biondi, vergini. Qualcuno aveva affidato loro un'idea di gloria nelle mani, solo da stringere, da non fare svanire; pervasi, vuoti, pronti ad accogliere la berserksgangr degli antenati. Tutto svanito nella polvere e nell'odore acre della balistite. Tutto crollato nel nulla: niente più aquile, fiamme, bracieri; solo le cicatrici dell'obice, il fosforo, i getti di benzina gel, odore dolce e lontano di carne bruciata. Ancora una volta si ritrovò di sentinella al nulla, all'ineluttabile, con le dite troppo vicine alla brace di una sigaretta che non riuscì mai a fumare. Le sue mani ritrovarono gesti che sperava perduti mentre inseriva il caricatore nella Pistole38 di ordinanza. L'acciaio gli sorrise tra le pieghe, lo stava aspettando da qualche tempo e lui aveva rimandato già da troppo.

Il silenzio quieto e operoso del paese fu spezzato per un attimo dal rumore di un ramo spezzato; Marianne lo udì mentre era appena oltre le ultime case, mentre ammirava la pianura inondata da un sole ancora freddo. E fu allora che riprese a respirare, rilasciò l'aria che teneva dentro da molto tempo, da una mattina a scuola, una come tante altre. Il vapore del suo alito si diffuse attorno al suo volto, per un attimo il paesaggio si riempì di nebbia, solo per un attimo. Sorrise delicatamente e assaggiò il sapore di un'unica lacrima.

volksgrenadier.cont 21.1 Kb rev. 2024.12.19 18:02:37